OUTLOOK 2023
Economista, esperta di management e organizzazione. Deputata, prima al Parlamento italiano poi a quello europeo, dove ricopre la carica di presidente della Commissione per i problemi economici e monetari. Leader del Partito democratico, come vice di Enrico Letta. Irene Tinagli è stata però prima di ogni cosa un'allieva dell'Università Bocconi, dove si è laureata con il massimo dei voti, prima di conquistare il suo dottorato alla Carnegie Mellon. La sua storia è uno di quei tentativi riusciti di coordinare conoscenze e politica. Con lei abbiamo discusso del difficile panorama della politica economica europea in questa fase.
Per parlare della situazione attuale, non si può che cominciare con l'inflazione e il peso che grava su famiglie e aziende. La Ue può fare qualcosa per aiutare la Bce?
Sul tema dell'inflazione ovviamente i riflettori sono puntati sulla Banca centrale europea, ma la Bce usa gli strumenti che può. Lo strumento tradizionale della Bce che è l'innalzamento dei tassi da solo non è sufficiente.
Il dilemma che abbiamo nell'Unione Europea adesso è affrontare obiettivi che richiederebbero strumenti diversi: il rallentamento dell'economia suggerirebbe politiche economiche e monetarie non troppo restrittive mentre l'inflazione che galoppa suggerirebbe un rialzo dei tassi anche abbastanza deciso. Al tempo stesso, però, dobbiamo anche fare delle considerazioni ulteriori sulla composizione e la natura dell'inflazione che abbiamo oggi in UE: l'inflazione che registriamo infatti non è tanto legata a un surriscaldamento della domanda, ma prevalentemente a problematiche di offerta e di costi di produzione impennatisi soprattutto a causa dei prezzi di gas ed energia. Occorre allora coordinare la politica monetaria e quella fiscale ma in questo caso specifico bisogna anche aggiungere un terzo elemento: un intervento sul mercato dell'energia.
La corsa dei prezzi dell'energia sta "contagiando" numerosi settori e facendo salire l'inflazione anche in via indiretta. Per la Bce questo contagio dell'inflazione è un elemento di rischio su cui deve intervenire, con i tassi perché non ha altri strumenti; ma noi potremmo (direi dovremmo!) introdurre una riforma strutturale del mercato dell'energia. È quello che cerchiamo di fare quando chiediamo uno sganciamento del prezzo dell'energia generato dalle rinnovabili per non legare il prezzo dell'energia totale solo all'andamento del prezzo del gas; o quando chiediamo interventi sul funzionamento del mercato di Amsterdam. Anche quando chiediamo di mettere un tetto al prezzo del gas importato, anche se, ovviamente, in via solo temporanea.
Poi possono essere utili anche le politiche economiche e fiscali. I paesi stanno mettendo in campo misure per aiutare famiglie e imprese a pagare le bollette ma anche queste da sole hanno dei limiti: i margini di bilancio dei singoli paesi. Anche a livello di Unione europea non è semplice: è ancora attiva la recovery and resilience facility, 750 miliardi di debito comune ancora da spendere, e non è facile fare ulteriore debito comune. E, in ogni caso, non sarebbe semplice utilizzarlo per erogare sussidi. L'Unione europea ha già modificato il framework degli aiuti di Stato per consentire ai Governi di dare aiuti alle imprese e alle famiglie sulle bollette, però aggiungere a questi anche risorse europee è un passo secondo me complicato.
Cosa possono fare invece i singoli stati, con le risorse esistenti?
È comunque importante cercare di intervenire attraverso trasferimenti temporanei di sostegno ai redditi per far fronte alle spese crescenti piuttosto che intervenire sui prezzi o sulle contrattazioni collettive dei salari perché questi sono tutti meccanismi che potrebbero generare spinte inflattive. Ci vuole molta accortezza, è un momento molto delicato e noi dobbiamo essere in grado di fare politiche coordinate su tutti i livelli. Oggettivamente non è facile perché dopo due anni di Covid i debiti sono tutti schizzati in alto anche di 20-30 punti. Però dobbiamo trovare una soluzione.
L'Italia però ha un debito pubblico che limita molto gli spazi di intervento.
L'Italia ha questa difficoltà. Ora c'è un aspetto un po' paradossale: l'inflazione alta aumenta un po' il pil nominale e riduce un po' la percentuale del debito; e sono aumentati anche gli introiti dell'Iva sui prodotti energetici. Sono elementi che in quest'ultimo anno ci hanno consentito di tamponare un po' la situazione ma è ovvio che l'Italia è oggi uno dei paesi in maggiore affanno perché ha una struttura produttiva particolarmente energivora e ha un mix energetico dove le rinnovabili non sono ancora sufficienti. Per di più importavamo in larga parte dalla Russia.
E con la prospettiva di una crescita azzerata se non negativa per il 2023, e un debito comunque altissimo, è evidente che nei prossimi mesi avremo margini più limitati rispetto ad altri paesi per intervenire a sostegno della nostra economia con sussidi, ristori e così via. Lo abbiamo fatto in pandemia, lo abbiamo fatto nell'ultimo anno per far fronte al caro energia con quasi 66 miliardi di sostegni stanziati dal Governo Draghi, ma adesso siamo arrivati a un punto in cui è necessario fare interventi più strutturali sul mercato dell'energia e cercare anche di spingere verso soluzioni europee.
È possibile in questa situazione una riforma del patto di stabilità?
Già l'anno scorso la Commissione aveva detto che nel 2023 avrebbe presentato una proposta, ed è necessaria perché se è vero che la clausola di salvaguardia è attivata è anche vero che non possiamo arrivare a fine 2023 senza avere un nuovo assetto e con il rischio di tornare alle vecchie regole. L'eurogruppo e l'Ecofin hanno ricominciato a parlare di questo tema. La questione è: quale può essere il punto di caduta, la soluzione che trovi d'accordo tutti i paesi? Non è semplice perché ci sono tante prospettive diverse. Le esigenze sono note a tutti: garantire un minimo di convergenza e di stabilità macroeconomica a livello di Unione europea ma anche non penalizzare gli investimenti e la crescita come invece hanno fatto in passato le vecchie regole. Le nuove non devono essere procicliche.
Come? Non sembra un compito semplice.
Questo è il nodo: quali sono i sistemi che possiamo mettere in campo per sostenere gli investimenti e dare ai paesi un po' di margine di flessibilità, senza far deragliare la spesa pubblica. C'è chi parla di golden rule: scorporare dal computo del deficit gli investimenti. Io credo sia difficile perché questa regola apre mille interpretazioni diverse e mille richieste.
Tutto diventa investimento...
Si possono anche introdurre dei paletti, ma poi c'è il paese che vuole la golden rule per le spese per la difesa, un altro per le innovazioni, un altro per il verde, un altro per il sociale. C'è anche un problema di misurazione: cosa in concreto scorporare? Si può pensare a un fondo europeo che sostenga investimenti di respiro europeo, un po' sul modello di next generation, con erogazioni scaglionate e vincolati al raggiungimento di risultati intermedi; potrebbe essere una idea per fugare dubbi sul moral hazard, sull'opportunismo, e così via. Ritorna però il problema di come finanziare questo fondo. Il bilancio europeo non è attualmente attrezzato per far fronte a questo tipo di fondi e di investimenti.
Si può pensare a una revisione dei trattati?
Non credo che ci siano i margini per riscrivere i trattati, cambiare il 3%, il 60%... Quello che sarà inevitabile secondo me è rivedere i regolamenti che impongono ogni anno di rientrare di 1/20 rispetto all'eccesso di debito che si è accumulato. Secondo me va rivisto, e mi sembra che su questo tema ci sia un accordo più ampio. Tra l'altro sono regolamenti su cui si può intervenire con modalità più semplici rispetto ad una revisione dei Trattati.
La nuova situazione geopolitica, ormai da mesi, sembra segnare il ritorno della politica industriale. Vede anche lei questa tendenza?
L'Unione europea ha già cominciato a muoversi, negli ultimi anni, anche con risorse per progetti speciali che potessero sostenere tecnologie innovative, per esempio la produzione di batterie e ora, con il chips act, la produzione di microchip in Europa. Le vere e proprie politiche industriali restano competenze degli Stati membri, ma con iniziative di questo genere l'Unione europea fornisce indicazioni (e strumenti) su tecnologie o produzioni considerate strategiche, per stimolare un radicamento in Europa, per fare investimenti su innovazione e ricerca che si fa sempre un po' fatica a incrementare. Credo che sia un primo modo per rafforzare l'indipendenza strategica su alcuni settori. È chiaro che bisogna anche un po' rivedere, se vogliamo avere dei campioni europei, come interpretiamo il tema della concorrenza, degli aiuti di stato, ma anche quello della costruzione di un vero mercato unico. Abbiamo un mercato comune per il trasporto di merci che è prezioso ma abbiamo ancora 27 legislazioni diverse in materia fiscale, finanziaria, nella raccolta di capitali, e anche l'unione bancaria va completata per stimolare di più le operazioni cross-border dentro l'Unione. Allora è chiaro che dobbiamo fare i maggiori passi in avanti su questi fronti.
Biografia
Da Empoli a Milano, e da Milano verso Pittsburg, alla Carnegie Mellon, e poi a Göteborg, a Madrid, e ovviamente a Strasburgo, nella sede del Parlamento europeo. La Bocconi ha aperto molto porte a Irene Tinagli. "La Bocconi e stata un'esperienza straordinaria. Io arrivavo dalla provincia toscana e per la prima volta approdavo in una grande città: è stato un passo verso il mondo, verso l'esterno. È stata un'esperienza straordinaria non solo al livello di formazione, ma perché era anche un ambiente molto variegato. È stata una grande palestra per me, con una grande apertura internazionale, quindi un modo per conoscere il mondo". La Bocconi, inoltre, "Nel giro di pochi anni si è affermata nel quadro internazionale con grande autorevolezza, con grande determinazione e grandissima qualità. È riuscita nella duplice impresa di ampliare l'offerta formativa e migliorare gli standard qualitativi, e non è una cosa banale".