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Migranti, la tendenza e' esternalizzare il problema

, di Chiara Graziani - research fellow presso il Dipartimento di studi giuridici
Da una parte il Regno Unito ha cercato di portarli in Ruanda, dall'altra l'Italia ha trovato un accordo con l'Albania: due soluzioni diverse ma che in comune hanno l'idea di esportare i migranti. Mettendo a rischio i diritti umani

Negli ultimi anni la pressione migratoria ha spinto diversi Paesi a ricorrere a politiche di "esternalizzazione". Alcuni esempi recenti, che hanno fatto molto discutere, sono il Regno Unito (UK) e l'Italia, anche se i rispettivi strumenti presentano differenze significative.

Nell'aprile del 2022, il Regno Unito ha adottato la cosiddetta politica del Ruanda. Si trattava di uno schema in base al quale il Regno Unito considerava il Ruanda come un "Paese terzo sicuro" in cui trasferire le persone in cerca di asilo nel Regno Unito, in modo che la loro domanda di asilo potesse essere esaminata dalle autorità ruandesi, secondo la legge di quel Paese.

Oltre a subire forti critiche a livello politico - basate, in primo luogo, sul dubbio rispetto del principio di non respingimento da parte del Ruanda - questa politica è stata contestata dai tribunali britannici e, solo un paio di settimane fa, la Corte Suprema del Regno Unito ha emesso la sua sentenza definitiva.
In base alla decisione della Corte Suprema, la politica è illegale perché ci sono "motivi sostanziali" per credere che, se rimandati in Ruanda, i richiedenti asilo saranno deportati nel loro Paese d'origine, anche quando potrebbero subire torture e maltrattamenti una volta lì. In altre parole, è molto probabile che il Ruanda violi il principio di non respingimento.

È importante notare che la Corte ha deciso sulla base della Convenzione sui rifugiati del 1951 e del suo Protocollo del 1967 e dell'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (incorporata nell'ordinamento giuridico britannico attraverso lo Human Rights Act del 1998), mentre ha respinto le motivazioni basate sul cosiddetto diritto comunitario. Secondo queste affermazioni, la politica violava il "principio di connessione", contenuto nella direttiva sulle procedure dell'UE, secondo cui i richiedenti asilo possono essere inviati in Paesi terzi sicuri solo se esiste una "connessione" tra il migrante e il Paese (legami familiari, soggiorni precedenti, ecc.). Secondo il ragionamento della Corte, il principio di connessione non è più applicabile dopo la Brexit, perché è tra le disposizioni del diritto dell'UE che sono state esplicitamente escluse dal mantenimento nell'ordinamento giuridico britannico dopo l'uscita. In questo modo, la Corte ha evidenziato una chiara "rottura" nel campo del diritto migratorio tra l'era pre-Brexit e quella post-Brexit.

Dopo la decisione della Corte Suprema, il futuro di questa politica è incerto. Da un lato, il primo ministro britannico ha annunciato un'imminente rinegoziazione con il Ruanda per garantire un maggiore rispetto del principio di non-refoulement; dall'altro, ci si potrebbe chiedere se un accordo bilaterale, per quanto raffinato e ben scritto, sia sufficiente a imporre il rispetto degli obblighi di non-refoulement in un Paese in cui la storia recente mostra prove scoraggianti in termini di diritti umani.

La politica britannica è stata paragonata alla recente strategia italiana di esternalizzazione dei migranti. È noto che, all'inizio di novembre, il governo Meloni ha annunciato un accordo con l'Albania per la costruzione di due centri in territorio albanese per ospitare i migranti salvati in mare dalle navi italiane.

Sebbene la politica italiana possa sembrare molto simile a quella britannica, una differenza rilevante è che l'accordo tra Italia e Albania prevede esplicitamente che i centri saranno sotto la giurisdizione italiana e quindi verrà applicata la legge italiana. È previsto anche un riferimento al rispetto del "diritto internazionale ed europeo".

Anche se l'approccio italiano sembra meno preoccupante di quello britannico, ci sono alcune questioni legali che dovrebbero essere almeno monitorate nell'attuazione pratica dell'accordo con l'Albania.

Il primo è che, secondo il diritto d'asilo dell'UE - anche se si guarda alla riforma che sta subendo - gli Stati membri (come l'Italia) non possono svolgere procedure d'asilo al di fuori del loro territorio (e l'applicazione della mera giurisdizione non sembra sufficiente a soddisfare questo requisito).

In secondo luogo, nonostante l'applicazione della giurisdizione italiana sia esplicitamente sancita nell'accordo, ciò non significa che la legge albanese cessi di essere applicata, poiché il diritto internazionale non consente a uno Stato di rinunciare alla propria giurisdizione in casi come questo. In pratica, quindi, i migranti detenuti in questi centri saranno soggetti a entrambe le giurisdizioni e il modo in cui gestire questa situazione dal punto di vista legale deve essere valutato attentamente.

In terzo luogo, questi centri sono di fatto centri di detenzione e le garanzie previste dalla legge italiana per l'applicazione della detenzione (controllo da parte di un'autorità giudiziaria, limiti alla durata del soggiorno, ecc.) sembra improbabile che vengano rispettate e fatte rispettare.

In conclusione, resta da vedere quale sarà il destino dello schema britannico dopo la decisione della Corte Suprema e l'applicazione dell'accordo italo-albanese. In ogni caso, queste politiche (e lo scenario comparativo mostra ulteriori esempi, come l'Australia) evidenziano una tendenza comune verso l'"esternalizzazione" dei migranti che, da un lato, può essere vista come una risposta alla pressione migratoria (disomogenea) che alcuni Paesi si trovano ad affrontare, ma, dall'altro, pone seri rischi in termini di standard dei diritti umani.