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Le conseguenze europee dell’approccio America First

, di Gianmarco Ottaviano
L’Europa sarà chiamata a fare una scelta difficile tra inseguire il protezionismo degli Stati Uniti o sfruttare gli spazi diplomatici e economici che l’isolazionismo americano potrebbe aprire

Che sia la Democratica Kamala Harris o il Repubblicano Donald Trump a vincere le prossime elezioni presidenziali americane, la politica commerciale degli Stati Uniti sarà caratterizzata da un forte continuità: con quella dell’amministrazione Biden nel primo caso, con quella del proprio precedente mandato nel secondo caso. Per capire quali scenari possano aprirsi per l’Europa, è quindi utile ricordare come sono andate le cose durante le due ultime presidenze. 

Prima di Trump, per il resto del mondo era più facile capire l’atteggiamento americano in materia di relazioni internazionali. 

C’erano una linea repubblicana e una linea democratica, ma la volontà degli Stati Uniti di compattare gli alleati intorno a interessi comuni era chiara. Come chiara era la leadership statunitense sulle relative azioni comuni. Questa chiarezza si è offuscata con Trump, il cui slogan elettorale Make America great again (rifacciamo grande l’America) è stato subito declinato come America first (prima l’America), riprendendo il motto delle amministrazioni americane, sia democratiche sia repubblicane, che tra le due guerre mondiali avevano perseguito un atteggiamento di neutralità rispetto alle vicende europee. 

Nel tempo America first è diventata l’etichetta di una posizione di politica estera isolazionistica, che l’amministrazione Trump ha tradotto nel sistematico ritiro degli Stati Uniti dai trattati internazionali (tra gli altri, l’accordo di Parigi sul clima e quello nucleare con l’Iran) e dalle organizzazioni internazionali (tra le altre l’UNESCO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’istruzione, la scienza e la cultura, e l’OMS). Trump ha anche attaccato l’alleanza militare tra governi europei e nordamericani (NATO) e ostacolato il funzionamento dell’OMC, indebolendo l’approccio multilaterale agli scambi internazionali e lanciando la sua guerra commerciale unilaterale contro la Cina. 

Una guerra i cui effetti collaterali non hanno risparmiato alleati di lunga data sia europei sia nordamericani. In breve, con Trump gli Stati Uniti hanno paradossalmente rinunciato al loro ruolo di garante di un ordine mondiale disegnato in larga parte a loro immagine e somiglianza e, secondo i più critici, anche a loro uso e consumo dopo la Seconda guerra mondiale. Da America first ad America alone (l’America da sola) il passo è stato breve. 

Con la presidenza di Joe Biden c’è in parte stata un’inversione di tendenza, grazie a un ritorno alla coerenza e a chiari obiettivi di politica estera. Biden è rientrato negli accordi sul clima di Parigi nel gennaio 2021; ha persino valutato l’adesione americana a una qualche versione modificata dell’accordo sul nucleare con l’Iran; ha rassicurato gli alleati che America is back (l’America è tornata), sottolineando l’importanza della NATO e facendo sentire la propria leadership nella gestione dei problemi globali, dal cambiamento climatico alle emergenze umanitarie. Con Biden gli Stati Uniti hanno cercato di riaffermare la loro centralità sul palcoscenico globale, ricompattando i loro alleati intorno a obiettivi comuni. 

Chi però si aspettava un’importante discontinuità anche in termini di politica commerciale è rimasto deluso. La ragione è che America first non è un’invenzione di Trump, ma un’idea che, come si è detto, parte da lontano. Da un lato, sebbene con toni meno garbati e interventi meno articolati del suo predecessore, Trump ha proseguito la traiettoria protezionistica già presente durante la presidenza democratica di Barack Obama e rafforzatasi all’indomani della crisi finanziaria del 2008. Dall’altro, il manifesto programmatico di Biden in tema di politica economica, reso pubblico durante la sua prima campagna elettorale, parlava già chiaro. Fin dal titolo: “Il Piano Biden per garantire che il futuro sia prodotto in tutta l’America da tutti i lavoratori americani”. Da Made in America a Made in all of America (da fatto in America a fatto in tutta l’America). 

A rafforzare il messaggio provvedeva l’apertura del documento, laddove Biden affermava di non accettare «per un secondo che la vitalità industriale degli Stati Uniti sia un ricordo del passato. L’industria statunitense è stata l’arsenale della democrazia durante la Seconda guerra mondiale e oggi deve far parte dell’arsenale della prosperità americana». 

Alla creatività di Trump è attribuibile l’utilizzo di pezzi di legislazione (oscuri ai non addetti ai lavori perché raramente utilizzati in precedenza) per imporre dazi sulle importazioni, soprattutto quelle dalla Cina.  Tra questi, la Section 201 del Trade Act del 1974, che permette l’uso di dazi provvisori per dare il tempo di recuperare competitività alle industrie americane in sofferenza per la concorrenza delle importazioni. 

La Section 301 del medesimo atto, che dà al governo americano il potere di usare i dazi per difendere le proprie industrie da pratiche commerciali scorrette attuate dagli altri paesi. La Section 232 del Trade Expansion Act del 1962, che permette al presidente di imporre dazi sulle importazioni che minacciano la sicurezza nazionale danneggiando industrie di importanza critica.

Mentre Biden ha sempre disapprovato i dazi di Trump, ne ha rimossi molto pochi. Ha anche aggiunto altre misure discriminatorie di politica industriale nei confronti delle imprese non americane, nell’ambito sia del CHIPS and Science Act del 2022 (volto a ridurre la dipendenza dalla produzione cinese di semiconduttori) che dell’Inflation Reduction Act del 2022 (volto a portare le produzioni legate alla transizione ecologica entro i confini nazionali). Insomma, da Obama a Biden passando per Trump, la traiettoria protezionistica americana è rimasta coerente a sé stessa. 

Cosa ci aspetta con Harris o Trump II

Quali aspetti allora potranno differenziare una presidenza Harris da una seconda amministrazione Trump?

Principalmente tre. Primo, la riduzione della dipendenza dalle importazioni cinesi continuerà a essere un obiettivo imprescindibile della politica commerciale americana. 

Tuttavia, mentre per Trump si perseguirà il “de-coupling” (cioè la separazione completa tra economia cinese e americana), per Harris si punterà al “de-risking” (cioè una separazione selettiva a seconda della criticità dei prodotti).

 Secondo aspetto, collegato al primo, le misure di Trump avranno una maggiore connotazione geografica come quelle volte a colpire la Cina per ridurre un disavanzo commerciale bilaterale visto quale risultato di una concorrenza sleale e fattore di rischio per la sicurezza nazionale. 

Diversamente, sulla scia di Biden, le misure di Harris avranno una maggiore connotazione settoriale, mirata a garantire l’autonomia strategica rispetto a prodotti ritenuti cruciali. 

Terzo aspetto, per ridurre la dipendenza dalle importazioni di tali prodotti dalla Cina, Harris darà seguito agli sforzi multilaterali dell’attuale amministrazione volti a rafforzare i rapporti commerciali con gli altri paesi asiatici, come la US-Taiwan Initiative on 21st Century Trade del 2023 e l’Indo-Pacific Economic Framework (IPEF), lanciato nel 2022 ma ancora in fase di sviluppo. 

Da Trump ci si può aspettare invece il ritorno della diplomazia americana ad un approccio opportunisticamente bilaterale, se non ciecamente unilaterale come nel caso del vagheggiato “dazio universale” del 10-20%, da imporre su tutte le merci importate indipendentemente dal paese di origine per contenere il disavanzo commerciale che gli Stati Uniti hanno non solo nei confronti della Cina.

Di fronte a questi scenari alternativi, l’Europa sarà chiamata a fare una scelta difficile tra inseguire il protezionismo degli Stati Uniti o sfruttare gli spazi diplomatici e economici che l’isolazionismo americano potrebbe aprire. 

Se Trump sarà presidente, la seconda opzione sarà più appetibile data l’inutilità di inseguire chi va ostinatamente per conto suo. 

Se invece la presidenza andrà a Harris, la scelta più opportuna per l’Europa potrebbe essere quella di sfruttare le sinergie con gli Stati Uniti, rese possibili dal loro approccio multilaterale, per perseguire in parallelo il proprio “de-risking”.

GIANMARCO OTTAVIANO

Bocconi University
Dipartimento di Economia

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