Il cervello? Un social network biologico. Capirne le connessioni aiutera' l'Ai
Viviamo in un mondo estremamente interconnesso. In realtà, siamo così intimamente legati che esiste una congettura sociologica, denominata «i sei gradi di separazione», secondo la quale possiamo connetterci a chiunque altro nel mondo tramite una sequenza costituita da non più di cinque persone tra loro sequenzialmente collegate. Questa idea certamente non sorprende se pensiamo a quante relazioni creiamo ogni giorno. Questo accade ogni volta in cui interagiamo con qualcuno, sia nella vita reale che nei social network, come Facebook e LinkedIn. Anche quando viaggiamo o navighiamo in Internet, creiamo connessioni tra città, oppure tra le pagine web che visitiamo in sequenza.
Queste enormi masse di informazione sono miniere d'oro per la data science. Vi è, infatti, una crescente ricerca che interseca statistica, machine learning, computer science e fisica, con l'obiettivo di comprendere i meccanismi che regolano gli schemi sottostanti i dati di rete. Una migliore comprensione di queste strutture è fondamentale, per esempio, per prevedere come le malattie infettive si diffondono tramite connessioni tra individui. Allo stesso modo, gli schemi con cui interagiamo nei social network così come la sequenza (e il tipo) di pagine web che visitiamo, possono fornire un supporto chiave nel targeted advertising, nei sistemi di recommendation, e nello sviluppo di strategie di cross-selling.
C'è, tuttavia, una rete ancora più fondamentale, la quale regola, quasi certamente, tutte le altre. È la rete di connessioni strutturali tra le regioni anatomiche nel nostro cervello. Può essere vista come una sorta di social network biologico, in cui gli utenti sono le regioni cerebrali, e una relazione di amicizia sussiste tra queste se vi è almeno una fibra di materia bianca che le connette, consentendo così la trasmissione di informazioni tra le due.
Le moderne tecniche di risonanza magnetica hanno reso possibile la misurazione di queste reti in maniera non invasiva, e un'accurata modellazione di questi dati complessi di connettività può offrire una visione senza precedenti sulla struttura del nostro cervello e sulla sua relazione con la creatività, l'intelligenza, il declino cognitivo e numerose malattie neurodegenerative.
Di recente la rivista American Scientist ha commentato così il libro Networks of the Brain (Sporns, 2010): «Il più grande contributo di questo volume sta nel collegare le neuroscienze con la scienza delle reti [...] Qui è dove dovremmo concentrarci per trovare la soluzione ai più grandi misteri della vita e della mente». Infatti, sebbene la velocità con cui le neuroscienze forniscono oggi nuovi dati sul nostro cervello sia molto più rapida del tasso con il quale la data science sviluppa metodi e modelli per analizzare questi dati complessi, c'è stata una forte accelerazione negli ultimi anni per chiudere questo gap. Per esempio, recenti modelli statistici per studiare l'intero processo probabilistico che regola la formazione delle reti cerebrali offrono oggi una visione più raffinata di come gli schemi sottostanti le nostre connessioni variano in funzione di determinate nostre caratteristiche. Abbiamo avuto la conferma di questo in un recente studio sulla creatività, in cui nuovi metodi statistici più raffinati hanno confermato che l'apparente divisione creativa-razionale del nostro cervello è principalmente un mito, mentre ciò che distingue le persone creative è proprio la capacità di connettere efficientemente i due emisferi.
Ma questa non è la fine della storia. Una miglior comprensione della nostra connettività cerebrale, e di quali effetti abbia sulle nostre abilità, potrebbe avere anche un impatto diretto nell'Intelligenza artificiale (Ai).
Infatti, le prime versioni di rete neurale prendevano proprio ispirazione da come si pensava in passato il cervello processasse l'informazione, richiedendo così un training su una grande mole di dati e su problemi ben strutturati. Ma come sappiamo oggi, il nostro cervello può fare ben meglio. In quest'ottica, la nuova conoscenza sulla nostra connettività cerebrale potrebbe fornire importanti spunti e risultati per migliorare anche l'Ai.