Lo strano caso di Lidia Poët
Lidia Poët, la prima donna in Italia a essere ammessa alla pratica legale, non è solo il personaggio principale di una serie Netflix ma anche il tema al centro di una ricerca di Roberto Isibor (Università Bocconi) e Bojan Spaić (Università di Belgrado). Il paper "When legal interpretation is not about Language. The curious case of Lidia Poët", pubblicato sul Journal of Argumentation in Context, si focalizza sulle argomentazioni giuridiche utilizzate dalla Corte di Cassazione di Torino alla fine del XIX secolo per escludere Poët dalla professione di avvocato, nonostante avesse soddisfatto tutti i requisiti legali per l’ammissione.
Lidia Poët, nata il 26 agosto 1855 in una famiglia valdese nel piccolo villaggio di Traverse, in Val Germanasca, dopo essersi laureata in Giurisprudenza presso l’Università di Torino nel 1881, con una tesi sui diritti di voto delle donne, iniziò la pratica legale e superò tutti gli esami necessari per diventare avvocato. Tuttavia, nonostante l’approvazione iniziale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, il suo caso suscitò un acceso dibattito pubblico e legale.
La ricerca di Isibor e Spaić esplora le diverse argomentazioni utilizzate dalla Corte per giustificare la sua decisione di escludere le donne dalla pratica legale. Gli autori sottolineano come la Corte si sia basata su argomentazioni linguistiche e sistematiche, apparentemente neutre, ma in realtà influenzate da pregiudizi di genere.
Argomentazioni linguistiche: La Corte ha utilizzato l’argomentazione secondo cui il termine “avvocato” nel testo legale era usato nella sua forma maschile, implicando che le donne non fossero incluse nella definizione; gli autori contestano questa interpretazione, evidenziando come la scelta della forma maschile fosse una convenzione linguistica piuttosto che una vera esclusione normativa.
Argomentazioni sistematiche: La Corte ha sostenuto che la professione di avvocato fosse un ufficio pubblico, dal quale le donne erano escluse per legge; il paper critica questa visione, dimostrando come l’interpretazione sistematica fosse in realtà una copertura per giustificare una discriminazione basata su preconcetti sociali e non su un’analisi giuridica rigorosa.
Argomentazioni storiche e naturali: La Corte ha anche fatto ricorso a argomentazioni basate su una presunta “naturalità” delle differenze di genere, sostenendo che le donne, per la loro “natura”, non fossero adatte alla pratica legale; gli autori dimostrano come queste argomentazioni siano radicate in un contesto storico e sociale che vedeva le donne come inferiori, piuttosto che in una reale considerazione delle capacità individuali.
Lo studio di Isibor e Spaić non si limita a un’analisi storica del caso, ma offre anche una riflessione critica sulle pratiche interpretative nel diritto. Gli autori sostengono che le argomentazioni linguistiche e sistematiche spesso mascherano visioni sostanziali che influenzano le decisioni normative. Questo caso, quindi, non solo illumina il percorso di Lidia Poët, ma pone anche importanti questioni sulla giustizia interpretativa e sui pregiudizi che possono influenzare le decisioni legali.
La ricerca di Isibor e Spaić rivela come le decisioni giudiziarie possono essere influenzate da pregiudizi sociali e culturali, e non solo da argomentazioni legali formali. La storia di Lidia Poët diventa così un esempio emblematico di come le interpretazioni legali possono essere utilizzate per perpetuare le disuguaglianze di genere. Questo approfondimento accademico non solo arricchisce la comprensione storica, ma offre anche spunti di riflessione contemporanei su come il diritto possa essere utilizzato come strumento di inclusione o esclusione sociale.